My soul is painted like the wings of butterflies...

My soul is painted like the wings of butterflies...
‎"Il minimo battito d'ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall'altra parte del mondo..."

Ci sono due modi di vivere la tua vita.

Una e' pensare che niente e' un miracolo.

L'altra e' pensare che ogni cosa e' un miracolo.

Albert Eisten

Informazioni personali

La mia foto
Nata il 13/o8/87 a Catania. Vivo con la mia famiglia a Riposto...dove ho sempre vissuto. Del mio paese cosa amo?Il mare e la voglia di sentirsi grande, anche nella sua piccolezza. Cosa non mi piace? La spazzatura e la mafia.E l'idea di rimanere attaccata ad un paesino di provincia che non presenta così tante opportunità.

mercoledì 25 novembre 2009

GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Napolitano: «La violenza sulle donne
è un'emergenza su scala mondiale»

Matrimoni forzati, mutilazioni genitali, stupri: gli ultimi dati valutano oltre 140 milioni di casi.

«E’ triste dover ricordare che anche in Italia, nonostante la recente introduzione di norme opportunamente più severe, i casi di violenza, i soprusi e le intimidazioni sono in aumento. Ai necessari interventi di tipo repressivo, da esercitare con rigore e senza indulgenza, si debbono affiancare azioni concrete per diffondere, in primo luogo nella scuola e nella società civile, una concezione della donna che rispetti la sua dignità di persona e si opponga a volgari visioni di stampo meramente consumistico spesso veicolate anche dal linguaggio dei media e della pubblicità. Solo così sarà possibile creare una cultura di autentico rispetto, innanzitutto sul piano morale, nei confronti delle donne»

LA FORMA DI UNA MORE


In mezzo a tante ingiustizie e cose che vanno come non dovrebbero è difficile guardarsi intorno per trovare qualcosa di unicamente bello.
Mario Muratori e Raffaella Rapisarda sembrano nomi come tanti per chi non sa quello che di grande fanno ogni giorno. Qualcosa di talmente forte che rimane lì, con la sua grandezza e la sua costanza, in attesa di essere visto.
Mario e Raffaella hanno aperto la loro casa famiglia dieci anni fa (casa famiglia “Madonna della Provvidenza”, attualmente nella sede dell’ex penitenziario S. Chiara). Non sono eroi, ma semplici persone straordinariamente umane che mettono le loro spalle sotto la croce dei più deboli; che “con mille limiti e mille difetti” affrontano le gioie e le difficoltà di una qualsiasi famiglia. Sono marito e moglie, genitori e membri della comunità Papa Giovanni XXIII. Sono i pilastri della casa famiglia, punti di riferimento per i ragazzi. Poveri nella vita e ricchi nell’anima: forse è proprio questo che li rende speciali.
La loro è una scelta di vita che congrua il bisogno degli altri di essere amati e il loro bisogno di sentirsi utili per qualcuno.
Accolgono bambini abbandonati, ragazzi con disagi psico-fisici; sostengono i ragazzi del carcere minorile e accompagnano in un cammino diverso ragazzi che hanno respirato una realtà affranta dalla tossicodipendenza,
convinti di costruire un mondo migliore, allontanano lo spettro dell’emarginazione, dando a questi ragazzi la possibilità di riscattarsi da quella vita che li ha feriti. E un’altra concreta prova di ciò lo è la cooperativa sociale “Ro la formichina”, creata proprio per i ragazzi, perché non hanno bisogno di pietà, ma di lavoro, di amore e di stima. Così tra una lezione di teatro e una di equitazione, tra la realizzazione di una ricetta e una partita di pallone, riscoprono il piacere di vivere, dimenticando il peso della società che, come piccole formiche, portano sulle spalle. È in questo modo che l’amore di queste due persone prende forma.
Ma Mario e Raffaella sono solo due delle tante persone che vivono con il nobile scopo di “dare una famiglia a chi non ce l’ha”, proprio come Don Oreste, fondatore della comunità, ha insegnato loro. Perché, in fondo, “siamo angeli con un’ala sola: possiamo volare solo abbracciati insieme”(Don Oreste).

domenica 8 novembre 2009

PERICOLO+INCOSCIENZA = MORTE


Una vita spezzata, un dolore incredibile.

A riposto, l’ultimo saluto a Domenico diventa occasione per una riflessione generale sul valore della vita e sui rischi di tante esistenze a tutto gas.



Sulle note di Eros Ramazzotti si conclude il funerale di un ragazzo di soli 22 anni, morto domenica 1 novembre in seguito ad un grave incidente stradale mentre era sulla sua moto ad una velocità eccessiva. “Solo che non doveva andar così, solo che ora siamo tutti un po’ soli qui”. A volte pensiamo che certe scene possiamo vederle solo nei film e invece no. Nei film l’attore si alza dopo essere caduto dalla sua moto alla velocità di 250 km/h, nella vita reale non va proprio così.

Mercoledì la piazza S. Pietro è diventata testimone di grandi dimostrazioni, per certi versi abbastanza plateali, di affetto e di dolore che sono riusciti a strappare qualche lacrima anche ai semplici curiosi. Centinaia di persone, infatti, hanno assistito al funerale un po’ insolito, che ha fermato Riposto per un’ora e mezza con il boato delle moto; hanno sorpreso i fuochi d’artificio che avevano un suono paradossale dopo il triste canto delle campane e i muri tappezzati di foto e striscioni d’addio hanno intenerito tutti.

Si sa, quando a spezzarsi è la vita di un ragazzo “che aveva ancora molti sorrisi da regalare”, fa particolarmente male e ci si appiglia a questi gesti. Spesso,davanti a questi drammi della vita bisogna fermarsi a riflettere, non basta prendersela col destino. È vero, non doveva andar così…

E la mente vola alle tristi cifre di uno stillicidio di giovani vite. Nel 2009 gli incidenti in moto sono raddoppiati e le conseguenze per i motociclisti sono sempre più gravi: tre incidenti su quattro sono considerati dal 118 come una vera e propria emergenza. Quasi il doppio rispetto a quanto accadeva soltanto due anni fa.

Perché si fa questo? Per sentire l’adrenalina in circolo?Per un senso assurdo di libertà?

Beh, queste giustificazioni risultano un po’ passate di moda.

C’è poi da dire che le moto vengono utilizzate, molto spesso, nelle gare clandestine. Gare in stile motoGP con la sola differenza che il tutto avviene in città e quasi mai vengono denunciate. Anzi, il più delle volte usufruiscono addirittura di un buon numero di spettatori.

Le gare clandestine nascono negli anni ’70 ’80. C'è chi dice che, come quegli anni, anche adesso dietro ci sia la malavita organizzata e che tramite queste gare ricicla denaro sporco, ma nulla è certo.
I protagonisti sono i giovanissimi che oltre a sfidarsi tra di loro scommettono anche sulla vittoria dei partecipanti.

A questo punto la domanda sorge spontanea: Ma nel nostro paese si fanno mai controlli a tal proposito o si fa finta che anche questo sia un problema che appartenga a tutti tranne che a noi?

Forse è arrivata l’ora di toglierci i prosciutti dagli occhi e intervenire in maniera concreta, per molti aspetti, perché la morte di un ragazzo sano causata da un oggetto che non viene saputo usare è inaccettabile. Che cosa si aspetta, che l’errore si ripeta?

giovedì 22 ottobre 2009

L’ECO DEL SILENZIO.

La storia di un destino quotidiano.

Se ne sta distesa su quel materasso, macchiato già da vecchie ferite. Col suo piccolo corpo, appesantito dal dolore. Nero, come la sua anima: ubriaca di dolore. Se non fosse per tutte quelle treccine non mi ricorderei più dei suoi ventidue anni; il dolore invecchia, è vero, e mi sento quasi invadente.

A ogni passo che avanzo la terra rossa s’innalza, quasi a volermi aggredire. E mi concentro su questo, come se fossero la terra rossa e i miei piedi sporchi a interessarmi veramente.

Ma adesso Yejiide si è svegliata e, dalla porta di quella baracca, fatta di paglia e banano, mi guarda. È quel silenzio disperato che mi da la forza di entrare, cacciando la paura di usurpare un dolore talmente grande da riuscire a strapparti dal petto la dignità.

«Nle-o! (ciao)» Riesce a sussurrare solo questo. Con un filo di voce.

Accanto a lei siede la psicologa; Yejide è ancora sotto shock per lo stupro di massa, subito in seguito a un attacco dei ribelli al suo villaggio, ma l’intervento chirurgico che le ha ricostruito l’apparato genito/urinario/rettale è stato troppo lungo e delicato per avere la forza di parlare. Se anche volesse. È già stato tanto se è riuscita a sussurrare “nle-o”. Con quel filo di voce. È già tanto se respira.

Ogni giorno arrivano decine di casi come questi, lì, alla “baracca dei miracoli” – la chiamano così – dove medici e volontari combattono per vite a loro straniere. Eppure, anche qui, qualche volta, i miracoli smettono di vivere.

Yejide è un nome originario della tribù degli Yoruba (Nigeria) e significa “assomiglia a sua madre”: donne messe al mondo da donne con lo stesso destino. Qui, in Nigeria. In Africa. Dove il sole, con questa luce così afosa, cerca di mascherare queste umiliazioni, di cui è quotidianamente testimone.

Solo nell’Africa occidentale, nell’ultimo ventennio, le vittime di violenza sessuali sono 432.000, tra ragazze e donne; il 18% è compiuto da familiari e l’età media delle vittime è di 15 anni. In questo modo il livello di analfabetismo tende ad innalzarsi: adolescenti che dovrebbero passare parte del tempo a ricevere un’istruzione, diventano improvvisamente delle madri. Inconsapevoli.

L’unica cosa che rimane loro è la mancanza di istruzione e la possibilità di imporsi come persona, il che ha dei tragici risultati sulla società e sulla speranza di vita.

Per queste donne, cresciute fin troppo in fretta, è molto difficile il ritorno a una vita normale. È già difficile dover fare i conti con la quotidianità della vita e con la sfida della sopravvivenza. Ogni giorno.

Perché ogni giorno percorrono queste strade rosse, alla ricerca di ciò che per loro si rivela, il più delle volte, una chimera: la dignità e una pace durevole.

Vittime del maschilismo, della poligamia, del disinteresse degli uomini; vittime di una guerra che non hanno deciso loro. Molte volte vittime di sé stesse, in un mondo in cui loro unico diritto è stare zitte.

La psicologa mi spiega che Yejide è stata ritrovata in un lago di sangue dal marito, l’ha portata alla baracca dei miracoli perché la sua amata non poteva morire: «Iranlowo! (aiuto)». I ribelli l’avevano sparata «Iranlowo

No, Yejide non è stata ferita da un proiettile: è stata legata a un albero per due giorni interi e ogni sera 10 guerriglieri andavano lì per violentare lei e altre 5 donne. Ora Yejide è sola perché “sporcata” da altri uomini. Troppi uomini, per ritornare a vivere con un marito sposato con altre due donne.

Abbassa gli occhi, immobile su quel letto. Adesso, si guarda le mani, ferite dalle corde che la tenevano appesa a quell’albero. Lavorava: percorreva 4 km a piedi, in media 2 volte al giorno, per procurare l’acqua alla famiglia, al ritorno preparava l’unico piatto della giornata e nel tempo che rimaneva doveva curare il piccolo e misero campicino di manioca. Sempre da sola, ma sempre col sorriso.

Le donne come Yejide tengono in piedi la società. Una società che si sporca della stessa terra rossa che ha sporcato i miei piedi, che puzza di fogna e povertà. Una società che sta dietro ad alberghi di lusso e alle immagini da cartolina del turismo. Ma è una società che, nonostante il paradosso, balla senza scarpe perché, se la terra rossa ti sporca, vuol dire che sei vivo. Che sorride anche quando la puzza di fogna e della povertà è così forte da umiliarti, perché per quanto sia sgradevole è comunque il suo odore.

Quante Yejide ci sono in Africa? Quante ce ne devono essere ancora?

In maggioranza, sono le donne a lavorare i campi ,in una terra che quasi mai appartiene a loro; controllano il 70% della produzione agricola, producono l’80% dei beni di consumo e assicurano il 90% della commercializzazione. Ma ad esse non è quasi mai concesso un pezzo di terra, solo perché donne.

Ogni giorno fanno 10-20 chilometri per portare l’acqua alla famiglia, con le loro taniche gialle sulla testa, poi vanno al mercato cercando di vendere quel po’ che hanno. Sulle loro spalle, i figli che ancora non camminano, in un arcobaleno di colori, tra le corsa e il rumore dei bambini.

Solo grazie al microcredito molte donne riescono ad aprire piccole imprese; molte altre s’impegnano nella politica, nelle problematiche sociali, nella salute, nella costruzione della pace. In una quotidianità disperata sanno rimettersi in piedi, a difendere i propri diritti calpestati.

Purtroppo, questa realtà non appartiene a tutte: ci sono donne che diventano schiave della strada; vendono il loro corpo per avere qualche moneta, ma molte volte vengono pagate con qualcosa che poi si rivela fatale: l’AIDS. In altri casi sono proprio loro che contagiano i “clienti” e, nei peggiori dei casi, i propri figli. In questo modo, aumenta il contagio del virus di HIV e AIDS che, nell’Africa Sub-Sahariana, è una delle principali cause di mortalità (il 55%, è rappresentato da donne), e la perdita di una sola madre ha conseguenze catastrofiche per il Paese, per la famiglia e, soprattutto, per i bambini.

Stiamo zitti. E in questo momento di silenzio penso quanto sia schiacciante il peso della sconfitta che, ogni minuto di ogni giorno, minaccia di seppellire ogni singola e piccola vittoria. Mi chiedo come ci si debba convincere che i processi da tartaruga di questo paese possano contare veramente, in un mondo che corre veloce. E ora, in questo silenzio pensoso, ho l’unica risposta possibile. E la risposta fa venire da piangere.

Deglutisco, e sulla schiena sento percorrermi un brivido, inevitabile quanto una morte in battaglia o un marciapiede bagnato appena finito di piovere.

Ma la psicologa rompe il silenzio dicendomi che Yejide, nella sfortuna, è stata fortunata perché non ha concepito: l’avrebbero messa sotto accusa processandola, se non addirittura ripudiata e lapidata. Poi mi saluta: «Questa donna, adesso, ha bisogno di riposare». Mentre mi giro per guardarla chiude gli occhi e si addormenta, come precipitando nel vuoto, ma non c’è sonno profondo abbastanza che riesca a seppellire la coscienza. Giusto, ha bisogno di riposare, nonostante il suo sarà un sonno a scatti alterni: risvegli angosciati e sonno tormentoso, fin quando la luce del mattino la trascinerà nel dolore straziante di un nuovo giorno.

E la lascio, immersa nel suo silenzio assordante.

Sfortuna. Fortuna. Che senso hanno queste parole in un pezzo di mondo così emarginato dal resto? È come se una persona curasse quotidianamente i suoi capelli mentre cammina nel fango. È come chiamare donna una mucca o chiamare mucca una donna: la si vende e la si compra. Viene usata dagli uomini come fonte di sfoghi sessuali e incubatrice di figli.

Questa è la storia di Yejide: una storia che si ripete e che non si sa mai come può finire. Una storia come tante altre, che commuove, che stranisce, che addensa le nubi dell’odio alla soglia dell’anima. Ma che non cambia, lasciando andare gradualmente le ultime speranze come roccia morbida che, col tempo, viene plasmata da un fiume in un canyon. Perché il suo destino continua a ripetersi ogni giorno.

Il sole sta calando, ma il vento è caldo e, ad ogni passo, spazza via un po’ della terra rossa dai miei piedi. Tra il suo leggero ronzio rimbomba l’eco del silenzio, senza neanche più farmi sentire le risate e i cori dei bambini: «Ojibo! (uomo bianco!) »

Adesso devo andare. Mi allontano, con uno strano senso di inutilità e una confusione claustrofobica nella mia mente. È facile che il senso di impotenza polverizzi il giardino delle buone intenzioni.

Intanto, molti volti continueranno ad incontrarsi, in quest’Eden di flora e fauna incontaminata, in cui dominano i colori e la natura è sovrana; nell’Africa, troppo spesso segnata dal malgoverno e dalla corruzione. Nell’immensità di un’oscura chiarezza.

Se non esistesse un proverbio sul fatto che “al male non c’è fondo e al peggio non c’è fine” avrebbero dovuto inventarlo.

Mi volto per l’ultima volta: dietro di me, un’immensa distesa rossa e la sagoma nera di un baobab.